“Non piangere mai sul whiskey versato” Daphne, A qualcuno piace caldo.
Stefan Van Eycken, autore di “Whiskey Rising” e principale risorsa web sul whiskey giapponese, ha definito con un significativo climax le qualità del prodotto che oggi andiamo ad analizzare, dalla Eigashima Distillery ad Akashi, appunto: ruvido, sporco e funky.
Probabilmente starete pensando che abbia esagerato un po’ nella degustazione prima di esprimersi con questi termini poco lusinghieri, tuttavia è utile contestualizzare questi “complimenti”: il carattere ruvido è sicuramente conferito dalla rovere delle botti in cui questo whiskey fa una delle tre parti del proprio invecchiamento, la seconda, ovvero, il passaggio in botti di ex bourbon gli fanno guadagnare l’appellativo “sporco” in quanto contribuiscano a mitigarne un po’ le note aromatiche, e la terza, ovvero la più funky, in cui la fanno da padrone le botti di Shochu, un distillato di nicchia a base di patate viola, orzo, sesamo e riso.
La notorietà dei whiskey provenienti dal Sol Levante ha iniziato la sua scalata partendo dal 2001, proseguendo imperterrita e determinata a “fare tendenza”, ma come spesso accade in questi casi, si da maggior rilievo al brand a discapito degli elementi qualitativi del prodotto. Apprezzare un buon whiskey giapponese, non significa apprezzare la musicalità del nome più o meno pronunciabile, ma valorizzarne le specialità del territorio e della cultura giapponese.
Ciò che stabilisce la qualità del whisky made in Japan è la nitidezza dei corsi d’acqua e il clima che permette al whisky esposto all’invecchiamento di arricchirsi ulteriormente.
Ma più di ogni altra cosa emerge come ingrediente forgiante l’amore per i dettagli, che nella cultura giapponese è estremamente presente, esprimendosi nella cura e nell’estrema attenzione nella produzione artigianale.
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